Nonostante l’aura libertaria che circonda la figura dello scrittore auto-pubblicato, che ci si immagina dare conto solo a se stesso e decidere autonomamente cosa e quando pubblicare, esistono obblighi professionali precisi a cui nemmeno il self publisher (anzi, specialmente lui) può sfuggire.
Vi sono perfino obblighi ulteriori rispetto a quelli richiesti allo scrittore tradizionale. Se ha la fortuna di scrivere per una buona casa editrice, quest’ultimo può preoccuparsi meno di questioni come l’editing, la grafica della copertina, il marketing, la distribuzione dell’opera: elementi decisivi per il successo di un libro per i quali si può sperare nell’intervento dei professionisti della casa editrice.
Il problema è che questi elementi sono fondamentali anche per il successo del self publisher – che dal canto suo non può contare sull’editore – e sottovalutarne anche uno solo rischia di condannare il libro autoprodotto (potenzialmente, anche il miglior libro del mondo) all’oscurità.
Non c’è un motivo valido per tutti i self publisher. C’è chi non crede abbastanza nella propria opera per sottoporla agli editor della Mondadori. L’auto-pubblicazione, che in apparenza è la scelta più narcisistica possibile, può in realtà nascondere molta insicurezza. Come nel caso di Anna Premoli, autrice bestseller della Newton Compton che ha deciso di pubblicare il suo primo libro con Amazon solo grazie alle insistenze del marito. Quel manoscritto è diventato Ti prego lasciati odiare, premio Bancarella 2013.
Ci sono quelli che di fede nella propria opera ne hanno da vendere, ci hanno provato con le case editrici e si sono stancati di ricevere la letterina standard di rifiuto, quando arriva, o di attendere invano il classico semestre se va male. Il fai-da-te è la via più breve per raggiungere il pubblico, mantenere i diritti sul proprio scritto e, al limite, aggiustare il tiro se si dispone di abbastanza senso critico da capire quando la storia non funziona. Infine esistono, e forse sono la maggioranza, gli scrittori della domenica, che compongono un catalogo di poesie-frammenti-riflessioni e poi sbattono lo zibaldone online aspettando fiduciosi le recensioni.
Esistono mille altre versioni di self publisher; credo però che non siano poi molti coloro che pianificano la propria attività con un approccio professionale, guardando a ogni aspetto del libro come un unico processo che va dalla prima stesura fino alla promozione. Quelli alla Glen Cooper, per intenderci. Magari non arriveranno a vendere 6 milioni di libri in 31 paesi, ma avranno qualche chance in più di emergere, soprattutto se non sono riusciti a innescare il passaparola al primo tentativo come Anna Premoli.
Un buon esempio è Omicidi in pausa pranzo (Mondadori, 2014) di Viola Veloce: libro divertente e a suo modo emblematico (storia di omicidi ‘aziendali’), inizialmente auto-pubblicato, che l’autrice ha saputo costruire in modo professionale e poi vendere con un ottimo lavoro di promozione, favorendo quel successo in rete che ha portato il romanzo all’attenzione della casa editrice di Segrate.
E quindi partiamo dall’inizio. Per prima cosa occorre ricordare che stiamo parlando di libri, una materia piuttosto difficile da padroneggiare se si trascura la parte tecnica. Ultimamente si fa un gran parlare di marketing librario come se il segreto fosse tutto lì. Pagine e pagine web sull’importanza del blogging, dell’e-mail marketing, del social networking, tanto che alla fine ci si chiede: e la scrittura? Normalmente i suddetti articoli esordiscono con una frase del tipo: “Do per scontato che tu abbia scritto un libro interessante, agevole da leggere e ricco di spunti…”.
Ecco, meglio non darlo per scontato.
È normale che ogni scrittore produca una gran quantità di materiale di scarto, nella speranza di ricavare qualche lavoro di cui essere davvero soddisfatto. La tentazione del self publisher è proporre al lettore anche questo materiale, mentre la sua utilità è rivolta unicamente all’autore, al suo processo di crescita. In esso lo scrittore deve immergersi mani e piedi per trovare la sua voce più autentica, i temi che lo appassionano di più, i personaggi che rispecchiamo meglio i suoi ideali. In fin dei conti può darsi che scrivere significhi proprio questo: dare corpo a un immenso incubatoio per le piccole idee che diverranno, si spera, i nostri romanzi migliori.
Perciò la scrittura richiede tempo, disciplina, passione, studio, oltre a un pizzico di talento. Significa sperimentare i punti di vista, lavorare all’intreccio, dare ruolo e coerenza ai personaggi. Soprattutto significa molta riscrittura, nello sforzo continuo di migliorare il materiale grezzo e trasformarlo in qualcosa di quanto più simile a un metallo nobile.
Cosa resta per il marketing librario? Poco, ovviamente. Ma se l’autore ha fatto bene il suo lavoro, avendo la forza di riconoscere e promuovere i suoi prodotti migliori, quel poco basterà.
Dopo quattro o cinque stesure, l’autore tradizionale ha terminato la sua bozza finale. Potremmo immaginarlo passare il lavoro al suo editor, bere un bicchiere di Dom Pérignon e fumarsi una sigaretta accendendola con un fiammifero, come Paul Sheldon in Misery. Può fare lo stesso il self publisher, limitandosi a caricare sulle piattaforme online il manoscritto? No di certo, se non vuol vedere il suo libro languire in fondo a tutte le classifiche.
Il mondo del self publishing è come un oceano pieno di sardine, tantissime, in banchi compatti e disciplinati. Vista una, viste tutte. Un buon libro, invece, è come un cetaceo che nuota placido e soffia alte colonne d’acqua, visibili da chilometri. Il self publisher deve farsi vedere allo stesso modo, distinguendosi dalle sardine, e per farlo deve curare lo stile, rendere la propria voce percepibile fin dalle prime righe – quelle che il potenziale lettore scaricherà gratuitamente per decidere se il romanzo fa per lui oppure no. Anzi fin dalla sinossi, dalla copertina e, last but not least, dal titolo.
Il self publisher deve ragionare come farebbe l’occasionale frequentatore della sua pagina libro nello store di turno (Amazon, Kobo ecc.): guardare al titolo acriticamente, valutando se è abbastanza evocativo da far guadagnare al prodotto un secondo in più; fare lo stesso con la copertina, chiedendosi se è un’immagine così suggestiva da rosicchiare un altro paio di secondi; quindi capire se la sinossi e le righe di biografia dell’autore riescono a portare a casa un’altra manciata di istanti.
È una lotta per conquistare un brandello di attenzione in più, fino a far cadere l’occasionale, distratto e magari sfiduciato cacciatore di buoni libri in buca, portandolo a scaricare l’estratto. Se poi il lettore compie l’ultimo passo della sequenza, l’acquisto del libro, è segno che il self publisher ha lavorato bene e il romanzo ha davvero una chance di emergere.
La ciliegina finale è ovviamente la recensione, perché vuol dire che il libro è stato letto davvero; ma qui entrano in campo altri fattori e la partita non è sempre pulita.
Non se si crede di fare tutto da soli. Uno scrittore è pur sempre uno scrittore. Difficilmente è anche un buon grafico, un buon inventore di titoli, un editor imparziale e così via. Il libro ha bisogno del suo tempo, come le nobildonne che si preparano per il ballo a corte, e altresì delle sue damigelle, quelle che all’occorrenza sanno suggerire e perfino, con delicata sincerità, criticare. Un self publisher deve avere la saggezza di non sottrarsi a questo lavacro e lasciarsi consigliare da chi la sa più lunga di lui. Amici fidati e sinceri, lettori forti e dotati di senso critico, all’occorrenza editor professionisti, sono le prime persone a cui un autore autoprodotto deve pensare, subito dopo aver scritto la parola ‘fine’ nell’ultima pagina e prima di correre su Amazon a cliccare ‘Pubblica’.
Le condizioni fin qui descritte – la buona scrittura, il tempo, il titolo, la copertina, la sinossi e tutto il resto – sono condizioni necessarie ma non sufficienti per essere notati. Non esiste un teorema. Molto dipende dalle circostanze, dall’imprevedibilità degli eventi, dalla fortuna… e anche dalla promozione. Alla quale, volenti o nolenti, non ci si può sottrarre.
Se abbiamo fatto bene il nostro lavoro, scrivendo moltissima fuffa e trovando infine la nostra pepita d’oro, allora possiamo tornare agli articoli di marketing librario e vedere cosa ci insegnano. Qualcosa saremo pur in grado di fare, fra advertising, pagine Facebook, promozioni, giveaway ecc. Sarà anche l’aspetto meno entusiasmante dell’intera faccenda, ma si tratta di quegli obblighi in più che gravano sul self publisher solitario, e che non si devono ignorare.
Ovviamente anche per questi servizi esistono dei professionisti, talvolta anche molto bravi, e tocca all’autore decidere quanto investire nel progetto. Sta di fatto che senza una bella fiammata iniziale il falò non si accende e il libro rischia di restare al freddo e al buio.
Amo le storie e i protagonisti che difendono ciò che hanno di più prezioso. Sono stanziale più che posso, ma grazie alla scrittura mi sposto sulle latitudini dell’immaginazione. La mappa della città morta è il mio primo romanzo per Newton Compton Editori.